SPELACCHIO! DOVE SEI? |
Silvio Donà (bloggocomeposso)
Io scrivo. Quando non posso farlo con le dita lo faccio nella testa. Da qualche anno pubblico le mie storie.
lunedì 5 dicembre 2022
LA SETTIMANA DELL'ALBERO DI NATALE (E' TRADIZIONE!)
CALL CENTER E CHIRURGHI
domenica 9 gennaio 2022
VACCINI, ARMADILLI E GENERE UMANO
Premessa: questo post NON è
rivolto a chi è convinto che il COVID non esista e/o ai NO VAX.
Lo dico subito perché non ho
voglia di fare polemiche, che stamattina mi sono svegliato col collo
irrigidito, ho dormito male e a pranzo c’è pure il minestrone!
Questo post è rivolto a
quelli che credono alla scienza ufficiale e pensano che i vaccini siano un
rimedio utile a contenere la diffusione della pandemia. Scrivo SOLO per loro.
D’accordo?
Detto ciò, in realtà questo
non è tanto un post sui vaccini, quanto piuttosto sulla generosità. O sulla
carenza di generosità.
È una cosa su cui riflettevo
in questi giorni, partendo da me stesso e dalla domanda: perché ho fatto il
vaccino?
La prima ragione è che io questa
malattia non me la voglio beccare.
Non è la paura di morire (la percentuale di decessi tra i contagiati che non hanno patologie pericolose non è così alta da scatenarmi il terrore); è piuttosto la preoccupazione di prendere il COVID in modo serio, perché si sta parecchio male e perché sento troppe persone che, anche dopo averlo superato, si trascinano per settimane e talvolta per mesi le conseguenze e gli effetti collaterali.
A me questo basta e avanza
per decidere di vaccinarmi.
Considerazioni mie, fatti
miei, eventuali conseguenze sempre mie. Punto.
Seconda ragione, per certi
versi più forte della prima: voglio diminuire la probabilità di trasmettere
l’infezione ai miei familiari.
Penso che praticamente tutti
quelli che si vaccinano partano da queste due motivazioni (a parte quelli che
tentennano considerando che, con un po’ di fortuna, potrebbero infettare la
suocera…).
La questione su cui
riflettevo è: sono ragioni sufficienti?
Per raggiungere un alto
numero di vaccinati forse sì. Per tenere in piedi le strutture sfilacciate e
cadenti della nostra società cosiddetta “civile”, mi sa di no.
Manca una motivazione
ulteriore: vaccinarsi pensando al bene degli ALTRI, intesi non come piccola
tribù familiare, ma come comunità. O, a voler essere “filosofici”, intesi come
umanità.
(NOTA: anche quelli che non
vivono nel mondo occidentale, ma in paesi poveri, che non hanno i soldi per
comprare i vaccini, sono UMANITA'. Lo dico giusto per amore di precisione,
eh?).
Quello, insomma, che una
volta si chiamava “senso civico” o “senso di responsabilità”.
È una motivazione che resta
sullo sfondo, che si cita alla fine nei discorsi ufficiali e nelle
dichiarazioni formali di intenti. Tipo i titoli di testa dei film in cui, dopo
l’elenco degli attori principali e secondari, compare la scritta: “con la
partecipazione straordinaria di…”.
Se questa ulteriore
motivazione non entra nell’elenco di quelle che ci hanno spinto a farci pungere
dalla siringa, allora mi sa – e lo ripeto a me per primo - che c’è qualcosa che
non va.
L’individualismo, che è la
matrice e il corollario apparentemente inevitabile della nostra società fondata
sul consumo e sulla ricerca del successo personale, tende per sua natura a
smantellare il senso di appartenenza a una comunità, a un gruppo, a un contesto
sociale.
In molti, però, ci illudevamo
resistesse, a mo' di zoccolo duro, la comune considerazione dell'imprescindibilità
del bene fondamentale della SALUTE. Se la ricchezza è per definizione per pochi
– poiché ci vogliono un sacco di poveri perché possano esserci pochi ricchi -
il diritto alla salute ci sembrava dovesse per forza essere di tutti e che ognuno
non potesse non volerlo non solo per se stesso, ma anche per gli altri.
Invece il timore è che anche
questo totem si stia sgretolando e che oggi il retropensiero sia: mi vaccino
per me e per quelli che mi stanno a cuore e gli altri che si fottano, fatti
loro.
Infatti i social sono pieni
di frasi del tipo: “io ho deciso…”, “io per me…”, “io però…”, “Io alla fine…”.
Sia per spiegare i no che
per spiegare i sì.
Io, io, io e ancora IO.
Con l'esplosione del COVID e
il primo lock down ci siamo raccontati che la pandemia poteva farci riscoprire
il senso profondo del vivere insieme, che fare fronte comune contro il pericolo
avrebbe potuto cementarci, riavvicinarci. Ci siamo gridati dai balconi che
sarebbe andato “tutto bene”!
Non è successo. Il gregge,
che si era istintivamente compattato all’arrivo dei primi fulmini, si è poi
disperso, parcellizzato, cercando rifugio dove meglio ha trovato riparo. I
lunghi e ripetuti temporali hanno fiaccato la voglia di reagire tutti insieme. L’esasperazione
ci ha portati a un: “ognuno per sé; si salvi chi può”.
Il punto di arrivo sono i
commenti astiosi e crudeli del tipo: “chi non si vuole vaccinare che crepi”; “che
venga cacciato dagli ospedali”. Insomma, chi “sbaglia” paghi.
Come se poi ognuno di noi
non fumasse troppo (“meritandosi” un tumore ai polmoni), non mangiasse troppo
(“meritandosi” un ictus per le arterie intasate), non guidasse troppo veloce
(“meritandosi” di schiantarsi contro un muro) e via dicendo.
E, come al solito, da bravi
occidentali che consumano senza rimorso due terzi delle risorse del pianeta,
facciamo tutti insieme silenziosamente finta che la pandemia non stia colpendo
anche la gente che vive nei paesi poveri o sottosviluppati. Contesti in cui
essere PRO VAX o NO VAX non significa nulla perché tanto i VAX col cazzo che
arrivano.
Se li sono comprati tutti i
paesi più ricchi. Cioè noi.
Una reazione da armadillo,
che si arrotola a palla di fronte ai pericoli, che ci rende più piccoli,
umanamente più poveri, socialmente più soli, eticamente più miseri. E, per
assurdo, fa un favore alla diffusione del virus permettendogli di proliferare e
mutare indisturbato in buona parte del pianeta, aumentando le probabilità che salti
fuori la variante "fortunata" in grado di aggirare i vaccini.
Al di là e oltre la
questione sanitaria, è forte la sensazione che oggi più che mai non basti fare
la scelta “giusta” per se stessi, nel senso di più razionale, efficace,
funzionale rispetto al rischio pandemico, ma che sia importante farlo anche con
le motivazioni giuste, non guardando solo all’orizzonte limitatissimo dell’incolumità
del proprio nucleo familiare.
Perché non dobbiamo solo
salvarci la pelle e passare avanti. Non basta.
Dobbiamo anche salvare il
senso di comunità, l’appartenenza al genere umano.
La pandemia è un problema grave
che speriamo, tra qualche anno, di lasciarci alle spalle, ma l’umanità vive
problemi ancora più grandi e più gravi.
Impossibile non pensare all’inquinamento
e al mutamento del clima. Un dramma epocale che non è pensabile affrontare come
singoli o in piccoli gruppi, abbassando la testa e chiudendosi a riccio.
Non c’è vaccino che possa
salvarci se il mondo diventerà un luogo inadatto alla vita.
Gli ottusi che si ostinano a
negare il cambiamento del clima e i singoli che, pur essendone terrorizzati,
pensano solo a comprarsi un condizionatore più potente, alla fine creperanno
insieme.
Ci sono cose, e tra queste
anche la pandemia, che si possono affrontare solo guardando avanti tutti INSIEME.
E se proprio non sarà
possibile ritrovare un senso di comunità, che a spingerci sia quanto meno lo spirito
di conservazione, con la consapevolezza che non esiste nessuna soluzione
miracolosa che può giungere dall’alto (Dio, i Governi, gli Alieni, i
Rettiliani, l’Immane Botta di Culo) e che solo un cambiamento radicale e
generalizzato del nostro stile di vita consentirà al genere umano di
sopravvivere.
In quanto abitanti dello
stesso (piccolo) pianeta, nessuno può pensare di essere una singola gemma che
brilla da sola, divertendosi a fare ombra agli altri.
Siamo invece gli anelli di
un'unica catena.
È un dato di fatto.
Che ci piaccia o no.
L'immagine dell'Armadillo di Zerocalcare c'entra poco. E' solo una scusa per dire a Michele che è un grande e che scrive alcuni dei più bei testi in circolazione!!! |
mercoledì 5 gennaio 2022
THE CHIPS AND THE SECRET STRATEGY OF BIG PHARMA
Fuori da un bar chiacchiero con un amico.
Gli sto raccontando che ho
fatto la terza dose di vaccino.
Un tizio che fuma lì accanto
scuote la testa e ci guarda con commiserazione.
“Lo sai che vuol dire terza
dose?“ mi apostrofa.
Vorrei evitare discussioni
che, già lo so, non porteranno da nessuna parte, ma purtroppo sono penalizzato
da quel problema irrisolvibile che è l’educazione (colpa di mia madre!) e finisco
per girarmi e, sia pure a malincuore, per rispondere.
“Che vuol dire terza dose?”.
“Che ti hanno iniettato non
uno, ma tre chip. Contento tu…”.
Dovrei evitare, lo so, dovrei
stare zitto. Invece siccome oltre al difetto dell’educazione ho anche quello
dell’essere tignoso, parlo.
“Che senso ha iniettarmi tre
chip? Ne basta uno no?”
“Eh, ma tu ne hai fatti tre
di vaccini!”
“Ma così i chip vanno in conflitto.
Che coglioni quelli del Governo”.
Il tizio resta un attimo
perplesso.
“Chi l’ha detto che vanno in
conflitto?”
“Ma è logico no? Tre chip… se
sono programmati per controllarci manderanno tre input uguali. Fanno un casino!”
La sigaretta si consuma tra
le dita del tizio che mi fissa interdetto.
“Ma no, forse allora il chip
è solo nel primo vaccino e poi lo sanno che hai già il chip e le altre volte
non te lo mettono più…”.
“Allora tutti gli infermieri del
mondo devono essere collusi con chi ha organizzato questo controllo di massa, perché
devono sapere in quali siringhe c’è il chip e in quali no”
Il tipo butta la sigaretta per
terra e la spegne col piede. Sembra intenzionato ad andarsene, ma adesso sono io
che non mollo la presa.
“Che poi… che stronzata usare
i vaccini per metterci dentro il chip no? È un metodo poco pratico perché si sa
che c’è parecchia gente che non lo fa il vaccino”.
“Eh…” bofonchia l’altro, non capendo
dove voglio andare a parare.
“Io non penso che Big Pharma
sia così scema, quelli sono furbi”
“Disonesti!”
“Si si disonesti, ma anche
furbi. Pensaci… se tu fossi Big Pharma, lo metteresti nel vaccino il chip? No,
tu che sei furbo lo metteresti…” resto in sospeso e lo guardo.
“Dove?” chiede, incuriosito.
“In un medicinale che
prendono tutti, volontariamente, senza farsi problemi”
“Ah…”
“Ascolta me, quelli che
dicono che il chip è nel vaccino ci prendono per il culo. È una falsa notizia
che serve a depistarci e a mandarci in confusione. È di tutta evidenza che il
chip è…”
“È?” ripete lui con lo
sguardo calamitato dal mio.
“Negli analgesici no?”
“Gli analgesici?”
“Ma sì, cos’è che prendiamo
tutti almeno una volta nella vita? Un analgesico! Per il mal di testa, per il
mal di denti, per il mal di pancia! Aspirina, Tachipirina, Brufen! Ecco dove
mettono il chip, altro che vaccino! Perché quelli li prendiamo tutti senza
porci problemi, senza farci domande. Si butta giù la pillola con un po’ d’acqua,
quella si scioglie, il chip si attacca con un micro-uncino alle pareti dello
stomaco e... Zac! Il gioco è fatto!”
Gli strizzo l’occhio con fare
d’intesa, del tipo: noi si che ci capiamo.
Il tizio non dice più niente,
ma si vede che la cosa lo ha scosso. Sta di sicuro pensando a quanti
antidolorifici ha preso in vita sua. Ad un tratto però gli viene in mente una
cosa.
“Aspetta… ma l’hai detto tu prima che troppi
chip insieme è facile che vanno in conflitto… così allora se ne buttiamo giù a
decine nella vita…”
Io sorrido.
“Ecco, vedi?”
“Vedi cosa?”
“Vedi che se ti soffermi un
po’ a pensare con la tua testa ci arrivi?”
“A cosa?”
“A capire che sto fatto dei
chip è una stronzata”, concludo serafico.
Lui mi guarda, ci mette un po’, ma alla fine capisce che lo stavo prendendo in giro.
E si incazza.
“Vaffanculo!”
“Ecco! Appunto! Finalmente
hai intuito il vero modo in cui inseriscono i chip nella gente!”
Vorrebbe rimandarmi al diavolo,
ma è confuso.
“Le supposte!” sussurro con
aria da cospiratore.
Il tizio diventa rosso, mi
manda a cagare con un gesto della mano, si volta e se ne va a grandi passi.
Io rido. Scuoto la testa. Mi giro
verso il mio amico.
Mi aspetto di vedergli un
sorriso sulle labbra, invece è pallido. Lo guardo interrogativamente.
“La settimana scorsa… Avevo
solo quelle a casa per la febbre… e me ne sono messe un paio…”
Mormora spaventato.
Ho la tentazione di
rincorrere il tizio della sigaretta per andarmi a prendere un caffè con lui…
giovedì 2 dicembre 2021
MASCHERINE. Tipologie di utilizzatori.
Mascherine.
Ovvero quell’indispensabile accessorio che, in via teorica, dovrebbe
coprire naso e bocca per ridurre la circolazione di virus in presenza di altri esseri
umani.
Per fortuna molti hanno preso seriamente l’idea che questo oggetto
possa avere una notevole utilità pratica, ma è esperienza comune che venga
talvolta indossato e “interpretato” dai suoi utilizzatori nei modi più
disparati e più creativi.
Senza pretese di esaustività, ho provato a caratterizzare alcune di queste
tipologie umane.
· QUELLO CHE SI PROTEGGE LE TASCHE DAL CONTAGIO. In
realtà non usa la mascherina, ma la tiene in tasca, per poi ripescarla
precipitosamente nel caso in cui sbuchi un Tutore dell’Ordine di qualsivoglia
natura (Poliziotto, Carabiniere, Finanziere; Vigile Urbano, Guardia Forestale,
Ausiliario del Traffico, Capo Scout, Messo Comunale) da cui teme di beccarsi
una multa.
· QUELLO CHE ADORA LE SCIARPE. La mascherina c’è,
ma è portata sotto il mento, sul collo, tipo pashmina. In questo modo le
orecchie gli calano verso il basso con un tenerissimo effetto “Nano Cucciolo”
che lo rende davvero adorabile.
· CAPPELLO ANTIVIRUS. Interpreta la mascherina in
modo opposto e alternativo all’uomo che adora le sciarpe. Lui la mascherina la
solleva sulla fronte, talvolta proprio sulla sommità del capo, dove la scorda,
finendo per farcisi anche la doccia. Poi si stupisce se i capelli non vengono
morbidi.
· IL SALISCENDI. Eterno indeciso o cronico
insofferente, passa tutto il tempo a spostare la mascherina di qua e di là, più
su o più giù, un po’ a destra un po’ a sinistra, toccandola ripetutamente in
ogni dove in modo da renderla l’oggetto potenzialmente più virale e pericoloso dell’universo.
Una singola mascherina di proprietà di un utilizzatore di questo tipo, abbandonata
in un luogo pubblico, è in grado di infettare una città di medie dimensioni con
almeno 7 tipi di virus differenti, un paio dei quali sconosciuti alla scienza
ufficiale.
· QUELLO CHE SOLO LA BOCCA E’ PERICOLOSA. Porta la
mascherina sulla bocca lasciando scoperto il naso. Evidentemente questo
soggetto è convinto che il naso non serva per respirare ma solo per estrarvi, con
accurate spedizioni speleologiche, caccole di varie forme durante le soste in
macchina al semaforo. Oppure ha un naso di notevoli dimensioni e spera che le
donne che incontra credano al becero luogo comune che dice che ci sarebbe una
relazione diretta tra le dimensioni del naso e quelle del pene. Temo che tale
luogo comune abbia scarso fondamento scientifico, mentre è molto più probabile
che vi sia una relazione diretta tra il fare cose insensate, tipo indossare
mascherine lasciando libero il naso di respirare virus, e le dimensioni modeste
del cervello.
· QUELLO CONVINTO DI ESSERE CIRCONDATO DA SORDI. Costui
tiene diligentemente la mascherina su naso e bocca… fino a quando non deve
parlare con qualcuno. Allora la abbassa per farsi sentire meglio, sputacchiando
doppler a mitraglia a distanza talvolta superiore a quella a cui un essere
umano medio è in grado di lanciare un sampietrino durante i simpatici
battibecchi coi Celerini alle manifestazioni di protesta.
· QUELLO CHE SPERA LA PANDEMIA NON FINISCA MAI.
Tiene la mascherina perfettamente posizionata a protezione di gran parte del
viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Dal punto di vista della lotta al
proliferare dei virus è un soggetto encomiabile. Peccato che la motivazione
vera sia che sotto la mascherina è brutto come la fame e che la mascherina gli
serva per nascondersi più che per proteggersi. Andrebbe tutto bene se non fosse
che, per poter continuare a nascondersi dietro la mascherina, passa il tempo
libero a starnutire apposta sulle maniglie delle porte…
...cacchio guardi? |
mercoledì 18 aprile 2018
LA TERMINOLOGIA AZIENDALE SPIEGATA AI NEOASSUNTI.
venerdì 10 novembre 2017
LA STANCHEZZA DELLO SCRITTORE
Vi confesso che prenderei a schiaffi quegli autori e registi che raccontano al cinema storie di scrittori in crisi che poi ad un tratto, ritrovata “l’ispirazione” (ispirazione? Che cavolo sarebbe l’ispirazione? Da quando in qua uno scrittore serio scrive solo quando ha l’ispirazione, ma scherziamo?), si mettono a digitare all’impazzata sulla tastiera e in un paio di notti di lavoro folle e disperato, tra un whisky e una sigaretta, tirano fuori una fantastica novella o, magari, con qualche settimana di applicazione, un romanzo che vendere milioni di copie e li fa diventare ricchi e famosi.