mercoledì 10 aprile 2013

TERRONI

Sto finendo di leggere TERRONI, di Pino Aprile (Piemme Edizioni).
E sto finendo di incazzarmi.
Di cosa parla TERRONI? Della Questione Meridionale. Vista dalla parte dei meridionali.
Piccola precisazione: io sono nato in Veneto. Non parlo da meridionale. È da italiano che mi sento incazzato.
Pino Aprile scrive cose che in qualche modo avevo già letto e sentito, ma in maniera episodica, magari nel contesto di altri discorsi. Leggerle invece tutte in fila, in un libro dichiaratamente provocatorio  (ma ben documentato), dedicato proprio a questo argomento, è un’esperienza choccante, dolorosa.
Volendo sintetizzare fino all’osso, cosa dice Aprile?
Risponde fondamentalmente a due domande.
Prima domanda: è vero che il sud è sempre stato arretrato rispetto al nord?
Se guardiamo i dati ufficiali sulla ricchezza pro capite, la capacità produttiva e la realtà economica alla data dell’Unità d’Italia, la risposta è NO. Nel 1860 il sud NON era più povero e arretrato del nord. La Campania, in particolare, era più ricca e progredita della Lombardia e del Piemonte (Napoli era la terza città d’Europa e Milano e Torino seguivano a diverse incollatura di distacco) e regioni settentrionali come il Veneto o la Valle d’Aosta se la passavano decisamente peggio della Puglia o della Sicilia. Perciò l’affermazione, generalmente data per scontata, che il Sud si trascinerebbe un’atavica e connaturata incapacità di progredire economicamente, è una balla. Una bugia che ai leghisti piace ripetere. Ma priva di fondamento. Una cazzata, appunto.
Seconda domanda: visto che dopo soli 30 anni dall’Unità d’Italia il nord aveva fatto un significativo salto in avanti, mentre il sud era rapidamente precipitato in una situazione di diffusa povertà (infatti solo intorno al 1880 comincia il fenomeno, prima praticamente inesistente, dell’emigrazione), CHI è il responsabile dell’impoverimento del sud e, quindi, della cosiddetta Questione Meridionale? La risposta è: IL NORD.
Chiunque guardi ai dati di fatto e vada a documentarsi seriamente su cosa è successo a partire da quegli anni, non potrà che allargare le braccia e dire: “porca miseria… è vero!”
Badate bene, non sto dicendo che nel 1860 il sud fosse ricco, evoluto e illuminato e il nord povero e retrogrado; infatti i vari stati e staterelli italiani preunitari erano tutti in una situazione di netto ritardo economico rispetto a paesi come Regno Unito e Francia: Se però ne volessimo individuare uno messo un po’ meglio degli altri, questo sarebbe sicuramente il Regno delle Due Sicilie e non il Regno Sabaudo.
Chiaramente bisogna avere la mente sgombra da pregiudizi razzisti e da convinzioni politiche preconfezionate. Quindi per moltissimi questo salto culturale risulterà impossibile.
Lo so che i libri di storia raccontano tutt’altro. Ma i libri di storia sono scritti dai vincitori e nel 1860 - nonostante le favole tramandate dalla retorica Risorgimentale – quella che è stata chiamata Unità d’Italia è stata in realtà una guerra di conquista che il Piemonte dei Savoia ha fatto per mettere le mani sulle ricchezze del Regno delle Due Sicilie, governato dai Borboni.
Il Piemonte e il nord hanno vinto. Il Piemonte e il nord hanno decretato cosa dovevano (e cosa non dovevano) raccontare i libri di storia.
Cosa c’è di solito dietro le guerre? I soldi, l’economia! Bravi, risposta esatta, vedo che siete ragazzi svegli.
Nel 1860 il Regno Sabaudo era in rovina: le casse dello stato erano prosciugate e l’equivalente di quelli che oggi chiamiamo titoli di stato, emessi dal Piemonte, valevano una pipa di tabacco (erano sotto il loro valore nominale) e non li voleva nessuno. Invece (toh, sorpresa!) quelli emessi dal Regno delle Due Sicilie valevano più del 120% del loro valore nominale, al punto che persino il Regno Unito ne faceva incetta. Per questo il Piemonte cavalca le aspirazioni unitarie di una fetta (a ben vedere ridotta) della nascente borghesia e degli intellettuali della penisola e si attiva per risolvere i propri guai. Mancano i soldi? Il Sud ha riserve auree e denaro circolante ben superiori? Perfetto! Andiamo a prenderle!
Garibaldi? Beh sì, serviva anche qualcuno che guidasse la spedizione militare. Ma in questa storia conta molto più la Massoneria che Garibaldi. La conquista del Sud è operazione decisa a tavolino, sul piano diplomatico, mediante accordi con la Francia e la Gran Bretagna (che voleva i Borboni fuori dall’Italia e, soprattutto, la marina mercantile dei Borboni fuori dalle balle), realizzata  mediante una diffusa corruzione dei vertici militari dell’esercito borbonico, mediante promesse a signorotti e nobili locali e mediante accordi con la Mafia.
Fin da quando facevo le medie la storiella mi sembrava difficile da accettare: Garibaldi parte con 1000 disperati (ai patrioti idealisti erano mescolati molti delinquenti comuni o avventurieri prezzolati, lo sapevate?) e in pochi mesi ha ragione di un esercito di 100.000 uomini… Grazie a cosa? Alla “sollevazione popolare”? Ma se molte popolazioni si sono sollevate CONTRO i garibaldini! E come mai la marina Borbonica, una delle più potenti del mondo, si consegna al nemico quasi senza sparare? E come mai i reggimenti  borbonici, quando ingaggiano battaglia con le disorganizzate truppe garibaldine, in molti casi (sono state davvero poche le battaglie “vere”, inutile prendersi in giro), dopo pochi, formali, scambi di fucileria, si arrendono? Perché reggimenti di migliaia di soldati depongono le armi davanti a poche centinaia di “guerriglieri” male armati in camicia rossa?
Ma vi pare? E’ chiaro che i generali borbonici hanno venduto i loro reparti (pare gli fossero state promesse somme favolose che però poi, in molti casi, non furono pagate!).
La cosa, però, che più fa accapponare la pelle è scoprire cosa hanno combinato le truppe Piemontesi, subito dopo l’Unità d’Italia, in quei paesi del Sud che hanno provato a ribellarsi. Perché, anche se i libri di storia non lo raccontano, sono successe cose atroci, incredibili. E non in pochi casi eccezionali, ma in modo diffuso e sistematico. Una quantità impressionante di morti. Paesi rasi al suolo, fucilazioni sommarie, stupri (non sono mica un’invenzione recente!), deportazioni, prigionia. Fino ai campi di concentramento. Sissignore. Furono istituiti veri e propri campi di concentramento al nord dove furono deportati migliaia di prigionieri, dissidenti, ex soldati borbonici.
Non sono farneticazioni. Magari lo fossero! Leggete TERRONI, leggete i testi da cui Aprile trae le sue notizie.
E i passi che impressionano di più sono le testimonianze, tratte da corrispondenze private o da interrogazioni parlamentari, degli uomini che avevano fatto l’Unità d’Italia, da cui traspare tutto lo sconcerto e talvolta quasi il “pentimento” per quello che avevano contribuito a realizzare. Perché in quegli anni i soprusi e gli orrori erano sotto gli occhi di tutti e lasciavano sgomenti.
Dov’erano nel 1860 i più grandi arsenali d’Italia? Al Sud. Dov’era l’unico insediamento industriale siderurgico moderno ed evoluto, capace di fare concorrenza agli inglesi? In Calabria. Qual era la città più importante d’Europa per la produzione di olio vegetale lubrificante (all’epoca veniva usato quello nella nascente industria, non ancora gli oli fossili e minerali), forse una città del nord? No. Era Gallipoli, dove c’era anche la borsa in cui venivano fissati i prezzi dell’olio industriale a livello mondiale.
Sono solo esempi. Per dire che il Regno delle Due Sicilie aveva una realtà economica che nulla aveva da invidiare a quella del nord. E cosa resta di questa capacità imprenditoriale e produttiva dopo pochi anni dall’arrivo degli invasori piemontesi/lombardi? Quasi niente. Gli insediamenti produttivi più importanti vengono chiusi e smantellati e, per quanto riguarda l’agricoltura, viene negata ai contadini la tradizionale possibilità (concessa dai Borboni) di coltivare le terre demaniali incolte. Che finiscono nelle mani di grandi latifondisti. Riducendo la gente alla fame.
Tutte le risorse devono andare al nord. Tutti i vantaggi competitivi devono essere del nord. Il sud deve essere messo in condizione di non nuocere, deve smettere di essere un (temibile) “concorrente” e diventare solo un mercato. Mercato di acquirenti per le merci del nord e mercato di braccia a basso costo per le fabbriche del nord.
E così è, per molti versi, ancora oggi.
Dove si sono costruite in prevalenza strade, infrastrutture, scuole e tutto quanto serve come presupposto per crescere dal punto di vista economico? Molto al nord. Poco al sud (quando proprio non si è potuto fare a meno…).
E al sud? Al sud si è preferito concedere interventi assistenziali, “gocce” di carità che servono a tenere buona la gente, a farla sopravvivere (evitando che si ribelli e vada in piazza coi forconi) in condizione di sudditanza, con la sensazione che non vi sia alternativa e che “nulla possa cambiare”.
Ci si guarda bene da dare al sud gli strumenti per camminare con le proprie gambe (non sia mai che ci riesca davvero!); gli si danno soprattutto sussidi, pensioni di invalidità, impieghi nelle pubbliche amministrazioni (serbatoi di voti al momento delle elezioni). Insomma gli si fa l’elemosina. Salvo poi insultarlo e colpevolizzarlo per quella stessa elemosina che serve a tenerlo in sudditanza.
E la tanto demonizzata Cassa del Mezzogiorno, chiusa quasi con ignominia, dipinta come “la madre di tutti gli sprechi”? Sono rimasto a bocca aperta nel leggere a quale percentuale del PIL del paese corrispondeva: appena lo 0,5% annuo! E molti dei soldi teoricamente spesi al sud finivano, in realtà, nelle casse di aziende del nord che avevano in appalto i lavori da realizzare al sud.
Sicuramente parte dei soldi saranno stati spesi male, ma negli stessi anni alle regioni del nord andavano, sotto forma di rimesse ordinarie e di investimenti per infrastrutture di tutti i tipi, somme enormemente maggiori, tali da far impallidire i “miliardi” spesi al sud. Le rimesse ordinarie alle regioni del nord non si vedevano (ma venivano incamerate con gran soddisfazione), le rimesse “straordinarie” riversate nella Cassa del Mezzogiorno”, invece, venivano sbandierate a gran voce (specie in periodo elettorale), anche se a ben vedere, non pareggiavano minimamente lo squilibrio di risorse riservate alle regioni del nord.
L’Italia è forse il paese europeo che ha scavato in modo più netto, mediante 150 di sfruttamento sistematico del suo meridione, un solco amplissimo al suo interno, dando vita nei fatti a due nazioni diverse che convivono nello stesso territorio. Mentre altri stati dell’Unione Europea si sono sforzati in qualche modo di colmare il divario tra le loro zone più sviluppate e quelle meno sviluppate, l’Italia si è mossa in direzione contraria, togliendo risorse, dirottandole dalle zone povere a quelle ricche, anziché viceversa.
Dopo la caduta del muro di Berlino la Germania dell’Ovest si è trovata riunita a quella dell’Est, mostruosamente più arretrata. Cosa hanno fatto i tedeschi? Hanno lasciato l’Est al suo destino? No, hanno investito un mare di soldi (dell’ovest), creando infrastrutture, ospedali, strade, ferrovie, scuole. Risultato? Nel giro di 20 anni di sforzi importanti il divario si è quasi annullato e la Germania è diventata, complessivamente, ovest più est, il paese economicamente più forte d'Europa.
Chi è, invece, che oggi affonda, anche e soprattutto perché la sua parte meridionale non è stata messa in grado di svilupparsi e di progredire? Chi è stato intelligente e chi miope, in modo autolesionista?
Di più: l’Italia è il paese europeo che più di ogni altro ha elevato il razzismo a ideologia politica, con la nascita e il successo della Lega Nord, il soggetto che più di ogni altro si permette di insultare la storia e di mentire spudoratamente su quello che è successo in questo paese. La Lega, ripetendo all’infinito, come un mantra, una serie di idee preconcette (che i fatti dimostrano false!), ha consolidato il convincimento che fossero vere.
Negli altri paesi le formazioni politiche di ispirazione razzista vengono temute ed emarginate. Da noi vanno al Governo!
E’ lo stesso meccanismo che usa Berlusconi, applicato al razzismo. Ripetere all’infinito, in ogni occasione, su giornali e tv, in discorsi pubblici e interviste, un’interpretazione della realtà falsata e funzionale ai propri scopi, che per il fatto stesso di essere “data per scontata”, finisce per “sembrare” vera.
Così 150 anni di affermazioni false hanno finito per convincere non solo la gente del nord (per lo meno quella più ignorante) ma, quel che è più grave, anche la gente del sud. Che ha cominciato a “percepirsi” come meno capace, meno importante, perdendo la piena consapevolezza di quanto sia stata sistematicamente sfruttata e schiacciata, se non addirittura derubata nel corso dei decenni. Ha cominciato a convincersi che davvero sia “colpa sua” se non sa produrre e progredire (produrre con cosa, se i mezzi a disposizione sono una frazione di quelli a disposizione degli imprenditori del nord? Eppure alcuni ci riescono lo stesso!). Gente del sud che ha perso persino il ricordo di avere alle spalle una civiltà straordinaria e una storia, anche economica, superiore alla storia delle regioni del nord, che beneficiano di condizioni enormemente più favorevoli, createsi tutte in tempi relativamente recenti, a partire dall’Unità d’Italia.
Ma lo sanno gli “amici” della Lega Nord, che prima dell’Unità il Piemonte e la Lombardia venivano sprezzantemente considerate dall’Impero Austro Ungarico come il sud sporco, incapace e fannullone del loro efficiente impero, abitato da gente da cui era inutile aspettarsi qualcosa, perché “geneticamente” incapace? Esattamente come oggi molti lombardi etichettano i calabresi.
Ha ragione De Crescenzo quando scrive che: “si è sempre meridionali di qualcuno!”
Fate un favore a voi stessi: leggete TERRONI. Forse non è un libro straordinario dal punto di vista squisitamente “letterario” (in tutta sincerità lo stile di Aprile non mi piace, potrebbe essere molto più stringato ed efficace), allo stesso modo in cui forse non è un gran libro, letterariamente parlando, neppure “Gomorra”, di Roberto Saviano.
Eppure sono libri irrinunciabili se vogliamo capire qualcosa della realtà che ci circonda.
Ripeto, non in quanto settentrionali o meridionali: ma in quanto italiani.
Se poi non vi frega niente di capire … buon facebook a tutti!

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"Si è sempre meridionali di qualcuno!" (Luciano De Crescenzo)

mercoledì 30 gennaio 2013

L'EDITOR MANNARO

Ne ho sempre avuto paura. Una specie di sacro terrore.
Ognuno di noi ha le sue idiosincrasie. C’è chi ha paura dei ragni, chi dei topi, chi degli spazi aperti, chi degli spazi chiusi, chi delle suore al volante, chi delle nuvole a forma di drago, chi del dentista, chi dell’estratto conto della carta di credito (quest’ultima, in particolare, è una paura molto diffusa…).
Io avevo paura degli editor.
Lo sapete chi sono, no? Sono quelli che lavorano per le case editrici e prendono in consegna il libro di uno scrittore per rivoltarlo come un calzino e trovare tutti i difetti. Sono quelli che decidono cosa funziona e cosa non funziona, quali cambiamenti vanno fatti.
In pratica quelli che danzano allegramente sul cadavere del tuo romanzo sventrato. Così li ho sempre visti io.
Non lo so se alla base di questo terrore ci sia qualche trauma della mia infanzia che ho rimosso dalla memoria; per esempio una vecchia zia che a quattro anni mi minacciava con frasi del tipo: “se non mangi tutto il minestrone viene l’editor nero e ti porta via”! O qualche inenarrabile episodio in cui, alle elementari, un editor perverso è penetrato nella scuola per seviziare un mio tema dall’originalissimo titolo: “Cosa hai fatto durante le vacanze?” (perché generazioni di maestre sono da sempre curiose di sapere che cacchio fanno i bambini durante le vacanze? Cercano consigli? Non hanno fantasia e non sanno dove trascorrere le loro ferie?).
Fatto sta che quando scrivevo solo per me stesso, prima di impazzire e cominciare a cercare un editore, evitavo anche solo di pensare all’eventualità di sottoporre i miei romanzi a un editor. La sola idea mi metteva angoscia. Più o meno come il pensiero di affidare mio figlio piccolo a un baby sitter di nome Hannibal Lecter (“…vada pure al cinema tranquillo… accudirò suo figlio come fosse una prochetta…”).
Pensare alle loro lunghe dita adunche che voltano le pagine del mio manoscritto, alle loro penne rosse (che immaginavo cariche del sangue innocente degli esordienti respinti…) che sottolineano brutalmente ed eliminano interi capitoli, ai loro occhi cisposi e corrucciati che scorrono la trama che tanto lavoro mi è costata, col sarcastico distacco di un vecchio patologo arrivato alla sua millesima autopsia, mi toglieva il sonno.
Così quel famoso pomeriggio in cui arrivò la mail di quel matto del mio editore che diceva che il mio romanzo era buono e che se fossi stato disponibile a lavorarci ancora un po’ poteva essere preso in considerazione, mi sono sentito insieme elettrizzato e terrorizzato.
Una pubblicazione? Una vera? Cioè proprio un libro col mio nome sopra? Cioè proprio che non lo dovevo pagare (profumatamente) io, ma lo stampavano e lo distribuivano loro?
E però… quella frase sibillina e minacciosa…
Cosa intendevano dicendo che avrei dovuto rendermi disponibile ad alcune modifiche?
Lame affilate e uncini acuminati? Pagine sventrate, lasciate agonizzare sul ripiano di sudicie scrivanie? Frasi amputate e aggettivi ferocemente soppressi? Avverbi desaparecidos di cui nessuno avrà mai più notizia? Citazioni sepolte vive? Digressioni seviziate? Nomi dei personaggi geneticamente modificati?
Ero pronto? Davvero ero disposto a chiudere gli occhi davanti a quello scempio pur di fregiarmi dell’aggettivo “scrittore”? Perché gli editori non prospettavano baratti più facili e meno dolorosi, tipo cedergli in comodato una sorella o gambizzare qualche loro debitore?
Ansia e batticuore.
Scrivigli, mi ripetevo. Scrivigli e digli che sei pronto a tutto, che si può sicuramente discutere eventuali modifiche del testo. Tanto: che ci perdi? Bluffa, vai a “vedere” le loro carte e se poi per pubblicarti pretendono di massacrarti il romanzo puoi sempre tirarti indietro. Mica te li stai sposando! Puoi sempre scappare a gambe levate. In fondo è una casa editrice del nord, sono lontani, costa troppo venire fino qui a prenderti a schiaffi per il tempo che gli hai fatto perdere. Sei al sicuro.
Così ho scritto. Ho risposto alla mail, indugiando a lungo col dito sul pulsante del mouse e poi…
Clic! Mail partita.
Ecco fatto. Ecco fatto? Ossignùr cosa ho fatto!!!
Mi sono venduto l’anima alla macchina succhiasangue dell’editoria?
Ed è cominciata l’attesa. La terribile attesa. L’attesa dell’incontro con l’editor mannaro!
Ancora ricordo la prima telefonata…
<Papà c’è uno della ***** che ti cerca…> mi ha annunciato uno dei miei figli, tenendo in mano il cordless, storpiando il nome della casa editrice.
Convinto che si trattasse di telemarketing stavo per rispondergli di dire che non c’ero, che ero emigrato in Groenlandia, ma poi ho avuto un momento di lucidità e ho capito di cosa si trattava.
Sudore gelato lungo la spina dorsale.
<Dammi qua…> ho mormorato prendendo il dannato cordless e portandolo all’orecchio con mano tremante.
<Pronto?...> ho trillato con voce incerta, un paio di ottave sopra il mio tono abituale. Devo essere sembrato una voce bianca in fase di riscaldamento prima di un concerto.
<Buongiorno, sono S. della *******>
Ma come? L’editor mannaro non aveva la voce cavernosa? Non sospirava al telefono come un maniaco? Non si sentiva rumore sinistro di pagine lacerate in sottofondo? La voce sembrava invece quella di uno dei compagni di scuola di mio figlio. Una vocina sorridente (sì, sì, le voci possono essere sorridenti, avete notato? Se dall’altra parte della linea telefonica l’altra persona sorride si “sente”, si percepisce. Questa cosa la insegnano nei corsi di vendita telefonica. Solo che poi, a furia di farsi sbattere il telefono in faccia per poche centinaia di euro al mese, gli addetti ai call center se lo dimenticano in fretta questo suggerimento…), una voce da ragazzino.
Dov’era il trucco? Avevano una macchina che altera la voce? Uno strumento per ipnotizzare a distanza? Ero già in loro potere e neppure me ne rendevo conto? Era l’invasione degli ultracorpi? La notte mi sarei ritrovato chiuso in un baccello e la mattina dopo ne sarei uscito coperto di bava verde, trasformato in uno scrittore-pollo-da-batteria pronto a dire e firmare tutto quello che volevano? Sarei stato persino disposto a comprarmi (orrore!) una giacca di velluto con le toppe di camoscio ai gomiti e un cappello?
< Ha qualche minuto? Le volevo parlare del romanzo!>
<Ehm… sì… beh sì… certo…>
Inutile rimandare, prima o poi bisognava pure affrontarlo. Oppure scappare davvero in Groenlandia. Che poi… si vivrà così male in Groenlandia? Cioè non è che sia molto popolata, ma qualcuno ci vive, no? Però magari ci vive perché non può venire via e, se potesse, col cavolo che vivrebbe in Groenlandia!
Basta! Come mio solito stavo divagando: in questi casi la mia mente gira per i fatti suoi e io perdo lo scorrere della realtà intorno a me.
Mi sono imposto di concentrami.
Ho ascoltato e, senza rendermene conto, come una confezione di surgelati tirata fuori dal freezer, lentamente ho cominciato a sciogliermi, mi sono rilassato, mi sono messo persino a sedere (all’inizio ero rimasto in piedi, rigido, soldatino sull’attenti al centro della stanza).
Niente uncini, niente forbici, niente ordini abbaiati con tono duro, magari in tedesco, come nei film sui campi di concentramento, niente “devi”, niente “tagliamo”, niente “eliminiamo”, niente “lasci fare a noi” seguito da minacciose risatine di sottofondo.
S*** con la sua voce da ragazzino ha cominciato a parlarmi di trama, di sviluppi della storia, di coerenza, di possibili miglioramenti da apportare. E le cose di cui mi parlava avevano un senso, suonavano bene.
Sì, effettivamente anch’io avevo delle perplessità su quel passaggio, non mi convinceva fino in fondo. Sì, anch’io mi chiedevo se quel personaggio non fosse un po’ troppo debole. No, non avevo pensato che forse questo retroscena andava spiegato meglio ma, adesso che me lo faceva notare…
Soprattutto mi sono reso conto che il lavoro di riscrittura sarebbe rimasto tutto e solo mio. Che avrei conservato il controllo del testo. Questa (faticosa) consapevolezza mi ha definitivamente tranquillizzato. Insomma: avremmo discusso insieme e poi io mi sarei messo al lavoro.
<Va bene, mi fa piacere avere avuto questa prima chiacchierata. La richiamerò a breve e vediamo di cominciare a lavorare il prima possibile>
<D’accordo. Aspetto la sua telefonata!>
Sono rimasto lì col cordless in mano per un paio di minuti, a riflettere sulle cose che mi aveva detto. Effettivamente aveva beccato un paio di punti deboli del romanzo. Del resto sapevo che c’erano (ci sono sempre). Ricordo che avrei voluto precipitarmi al PC e cominciare immediatamente a riscrivere. Che avrei voluto che avessimo già deciso una serie di cose. Che avrei voluto…
Improvvisamente realizzai che era passata. Era scomparsa. Non c’era più.
Ero guarito!
Era bastata una telefonata.
E io non avevo più paura dell’editor mannaro...


P. S.
Al di là del racconto, chiaramente “romanzato”, nella realtà ho avuto occasione di collaborare con tre diversi editor ai tre romanzi che fino a ora ho pubblicato.
Sono state esperienze differenti, che hanno comportato una mole di lavoro diversa; in un caso abbiamo deciso delle modifiche alla trama, con l’aggiunta di due nuovi capitoli, che ho scritto per l’occasione; negli altri due casi gli interventi sono stati più contenuti e limitati a delle migliorie al testo.
Posso dire che si è trattato, comunque, sempre di esperienze sostanzialmente positive.
Il confronto con un professionista portatore di un punto di vista “terzo” rispetto al testo è stato fruttuoso e ha consentito al romanzo di guadagnare qualcosa. Uno dei punti di debolezza delle auto-pubblicazioni, o della pubblicazione con case editrici poco serie, infatti, resta questo: la mancanza del confronto con un bravo editor che consente allo scrittore di recuperare quello sguardo esterno, da “lettore” che è fondamentale per individuare alcuni difetti (talvolta minimi, talvolta invece eclatanti), che l’autore, troppo immerso nella sua opera, non riesce più a vedere.



PALLOTTOLE D'ARGENTO DA USARE CONTRO GLI "EDITOR MANNARI"


venerdì 7 dicembre 2012

Papà ma tu che lavoro fai?

<Papà ma tu che lavoro fai?>
<Come che lavoro faccio Marcolino? Faccio lo scrittore, no?>
<Mmmm… sì ma… cioè… cosa vuol dire che fai lo scrittore?>
<Vuol dire che scrivo delle storie che poi vengono pubblicate>
<Scrivi delle storie…>
<Sì>
<E dove le trovi queste storie?>
<Non le trovo. Le invento>
<Allora sei un inventore!>
<No… sì… in un certo senso… Vabbè, diciamo che non si dice inventore di storie ma si dice scrittore>
<Sì ma, dopo che hai scritto la storia sui fogli…  cosa fai?>
<Beh sai, c’è molto lavoro per arrivare a pubblicare un libro…>
<Ah cioè bisogna prendere i fogli e incollarli…>
<No, no, che c’entra, mica le faccio io queste cose>
<Non sei capace? Le fa mamma?>
<No… cioè non importa se sarei capace o no di farlo. Queste cose le fa il tipografo>
<Il ti.. il pi… go… frago…>
<Tipografo, Marcolino. Sì, insomma, quello che ha le macchine per stampare i fogli, tagliarli e incollarli insieme… che poi a essere precisi si dice rilegare…>
<Regalare?>
<No regalare: rilegare!>
<Ah… però… che bel lavoro il pipografo!>
<Tipografo!>
<Sì, proprio un bel lavoro quello>
<Anche lo scrittore però non è male, non trovi?>
<Sì, abbastanza… però sono belle le macchine che tagliano i fogli e poi li rigl… li rigle…>
<Li rilegano>
<Ri-le-ga-no! Giusto?>
<Giusto>
<Quindi è il tipografo che fa i libri per davvero. Tu scrivi solo la storia…>
<Ti sembra poco???>
<No, no… serve anche quello, sennò il tipografo non avrebbe niente da ri-le-ga-re>
<Direi di no>
<E dopo che il libro è pronto, tutto bello ri-le-ga-to, cosa ci fai? Lo metti sulla libreria in salotto?>
<No Marcolino. Cioè una copia la tengo lì per ricordo, ma il tipografo non ne stampa una sola: ne stampa tante!>
<Dieci?>
<No, molte di più>
<Venti?>
<Di solito ne stampa almeno cinquemila>
<Sono tantissimissimissime?>
<Sono tante, sì>
<E dove li conservi tutti questi libri?>
<Ma no, non li conservo io!>
<Ce li ha il nonno in campagna?>
<No Marcolino. I libri dopo che sono stati stampati vengono portati dentro dei grandi depositi>
<Anche il nonno ha un garage grande>
<Sì ma i depositi dei libri devono essere più grandi perché ci sono tanti scrittori>
<Ah allora lo scrittore è un lavoro facile, lo fanno tutti>
<No non lo fanno tutti!>
<Insomma i libri li portano nei depositi e restano là…>
<No, non restano là. Poi li portano nelle librerie. Ti ricordi quella che sta in centro dove andiamo a prendere i libri di favole?>
<Quella vicino al gelataio?>
<Sì, quella…>
<Vicino al gelataio che fa il cioccolato e la fragola?>
<Sì…>
<Che bel lavoro il gelataio!>
<Sì… è un bel lavoro…>
<Perché non fai il gelataio?>
<Perché faccio lo scrittore>
<Fai lo scrittore perché non sai fare i gelati?>
<Faccio lo scrittore perché mi piace scrivere!>
<Ma li sai fare i gelati?>
<No, non li so fare!>
<Ah ecco, mi pareva…>
<Gelatai ce ne sono tanti>
<Anche di scrittori. L’hai detto tu che ci sono depositi pieni di libri…>
<Sì, d’accordo… ma poi i libri vanno in libreria>
<Vicino alla gelateria…>
<Ok ma la gelateria non è importante>
<Lo dici tu! Me lo compri un gelato oggi pomeriggio?>
<Va bene, te lo compro! Comunque, come dicevo, i libri vanno in libreria. Dove le persone li comprano>
<Li comprano?!>
<E certo, sennò che li scrivo a fare?>
<Avevi detto che scrivevi perché ti piaceva scrivere!>
<Vero. Ma se vogliamo avere i soldi per comprare il gelato bisogna che il papà i libri non solo li scriva, ma anche li venda…>
<Aspetta ho capito!>
<Hai capito?>
<Sì: tu vendi libri, ecco cosa fai di lavoro!>
<Ossignore…>
<Quando usciamo a comprare il gelato?>

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P. S.
il dialogo, chiaramente, è inventato :-))

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MA PAPA'... CHE LAVORO FA?

venerdì 30 novembre 2012

OKKUPAZIONI E PROF "LATITANTI"...

Cronaca di queste ore: scuole occupate, ragazzi in fermento.
Che si condividano o meno le motivazioni della protesta, io trovo interessante e tutto sommato positiva questa diffusa "voglia" dei ragazzi di partecipare e di incidere sui destini del mondo che li circonda (a proposito, qualcuno dei genitori che assiste infastidito all’exploit dei propri figli ha capito che, tra le altre cose,  c’è un tentativo in atto di consegnare una fetta della scuola pubblica in mano ai privati, consentendogli di investire dei soldi nelle scuole, a fronte del diritto di sedere nei consigli di istituto, incidendo sulle scelte e l’organizzazione della scuola stessa? Anche a me non è che la cosa piaccia molto!).
Il desiderio di capire e di “fare” di molti ragazzi mi sembra comunque preferibile al conformismo addormentato di quelli chi si lasciano scorrere le cose addosso senza nessuna reazione (come succede, del resto, in questi mesi, a una fetta pericolosamente consistente dell’opinione pubblica italiana di fronte a ben altre decisioni prese a livello centrale).
Lo dice, col senno di poi, uno che negli anni del liceo in questi casi se ne andava semplicemente a giocare a pallacanestro, cosa di cui oggi mi dispiace. Perciò sono contento, in linea di massima, che i miei figli siano interessati a quello che gli succede intorno (il che NON significa che io sia tranquillo… ma preoccuparsi per l’incolumità dei figli è l’occupazione principale dei genitori, no?).
Certo avrei preferito non vedere ripetere all'infinito l'abusata forma di protesta dell'occupazione, che ha in sè sempre una componente di imposizione e di violenza, e vedere utilizzare invece modalità più fantasiose e creative. E forse anche più efficaci. Ma questa è un'altra storia.
Quelli, invece, che mi lasciano perplesso sono gli insegnanti.
Profondamente insoddisfatti, ripetono da anni che è in atto un tentativo di massacrare la scuola e di affossare ancor più il loro ruolo e la loro professionalità, ma poi troppi di loro stanno alla finestra.
I ragazzi sono sulle barricate, i genitori vivono il momento con ansia, sperando che non succedano casini, ma i prof in prima linea mi sembrano molto pochi. Perché non sono anche loro davanti alle scuole, in massa, a rendersi disponibili a partecipare o a realizzare insieme ai ragazzi dei corsi autogestiti? Perché non approfittano del momento per organizzare incontri con personalità di rilievo che parlino ai ragazzi di confronto democratico e di lotta per i diritti (anche in modo da far riflettere chi occupa, spingendolo a rimanere in limiti di buon senso)? Non parlo, chiaramente, di propaganda politica. Sarebbe squallido. Parlo di usare anche la circostanza, di canalizzare l’entusiasmo del momento per offrire occasioni di crescita. Non sarebbe interessante far parlare qualcuno capace di spiegare, che so,  come si approva una proposta di legge, come si converte in legge uno dei decreti che stanno contestando, insomma come funziona il nostro sistema? Perché questa strisciante impressione che, a parte un certo numero di lodevoli prof che si spendono in trincea con costanza e passione, gli altri abbiano “mandato avanti” i ragazzi perché combattano anche la loro battaglia, mentre loro sono acquartierati nelle retrovie?
In questo modo, tra l’altro, si dà una pericolosa “sponda” a chi, come Monti, ha liquidato tutta la faccenda come una banale “difesa di interessi corporativi”, dando effettivamente l’impressione che agli insegnanti interessi solo non lavorare qualche ora di più a costo zero (cosa peraltro comprensibilissima: nemmeno io vorrei lavorare qualche ora in più in ufficio a costo zero!).
Invece poche volte come in questa occasione gli interessi di docenti e studenti, e conseguenza le “battaglie” (nel senso ideologico del termine, io non sopporto la violenza!) dovrebbero essere comuni.
Sarei contento di essere smentito da orde di insegnanti inferociti che mi insultano via smartphone dalle scuole occupate…

(vignetta del disegnatore Luigi Alfieri)

giovedì 22 novembre 2012

LA SCRITTURA

Mi piacciono le storie. Mi sono sempre piaciute.
Fin da quando avevo 5 anni e mia mamma mi ha letto Pinocchio a puntate, un capitolo ogni sera.
Il mio primo libro “da grandi”!
Probabilmente non immaginava il danno che stava facendo. Non si rendeva conto che mi stava piantando nel cervello un seme, creava un pericoloso precedente, lanciava una sorta di "fascinatura" (termine dialettale per descrivere il “malocchio” fatto dalle streghe), che mi è rimasta attaccata addosso e non mi ha mollato più.
Non ho complicate descrizioni: per me la scrittura è raccontare storie.
In primo luogo a me stesso, perché mentre scrivo ascolto io per primo la storia che la mente mi racconta.
Quando si prova un bella emozione si ha voglia di condividerla con gli altri, non è così? E mettere la storia in un libro è un ottimo modo per condividere le storie, non trovate?
Per questo scrivo; per questo provo a pubblicare quello che scrivo.
E l’abilità tecnica? La padronanza della grammatica, l’ortografia, la scelta dei vocaboli, lo stile? Che posto occupano in tutto questo? Davvero, come dicono alcuni, non sono poi così fondamentali?
Beh, se si vuole che la storia funzioni, che catturi fino in fondo chi ascolta, deve essere raccontata bene, senza intoppi, senza errori. Gli errori ammazzano la magia del racconto e noi non vogliamo che si perda neanche un pizzico della magia, non è vero?
“No, non tu! Fai raccontare alla mamma che è più brava!”
Il libro di Pinocchio si apriva; il mondo si fermava e poi spariva; la “fascinatura” faceva effetto e io diventavo di legno e correvo a perdifiato, inseguito dagli incappucciati, per non essere impiccato all’albero, con le monete d’oro zecchino nascoste sotto la lingua.
Mi piacciono le storie. Mi sono sempre piaciute.
Non c’è niente di meglio che raccontare una bella storia…


... era un notte buia e tempestosa...


martedì 20 novembre 2012

Leggere ebook in treno (o almeno provarci...)

Scena: lo scompartimento affollato di un (lurido, ma che ve lo dico a fare?) treno italiano.
Un tizio con i jeans e una giacca sportiva cerca di estraniarsi dal mondo circostante immergendosi nella lettura di un romanzo sul suo lettore di ebook. Per la cronaca il romanzo non è un gran che, ma questo non c’entra con la storia.
Stazione di Foggia. Scendono un paio di persone, sembra quasi che si possa respirare, invece i tre posti liberi vengono subito presi d’assalto da un simpatico trio: marito e moglie, piuttosto giovani, con mamma di lei al seguito.
Problema: nessuno dei tre pesa meno di una tonnellata e ognuno dei tre trascina faticosamente a rimorchio una valigia che, viste le dimensioni, contiene con ogni probabilità un cadavere, oppure una BMW in kit da montaggio.
Scusi qua, riscusi di là, piede pestato, testa abbassata all’ultimo momento per schivare lo spigolo di uno dei valigioni, issati in qualche modo sulla rastrelliera porta bagagli. Infine i tre incastrano i loro sederoni nello spazio limitato dei sedili, piazzano i gomiti sui braccioli, colonizzandoli, e cominciano a sventolarsi, tutti affannati e sudati.
Il tizio coi jeans ora è seduto in mezzo tra le due donnone e sembra una sottiletta in mezzo a due mezze pagnotte di pane pugliese. Ha lui stesso, per contrasto, l’impressione di essersi rimpicciolito.
Chiacchiere a 1000.
Tutti - compresi i viaggiatori degli scompartimenti vicini e quelli che stazionano nel corridoio - devono sapere dove è diretto il trio, perché sta viaggiando, il caldo che fa a Foggia, il costo vergognoso delle bottigliette di acqua minerale in stazione e quanto è stato gentile lo zio Antonio a accompagnarli in macchina che sennò facevano tardi.
Calma. Ci vuole calma e sangue freddo, calma. Chissà perché il ritornello della canzone di Luca Dirisio comincia a girare ossessivamente nella mente del tizio-sottiletta.
E’ giusto precisare che il tipo, da buon timido, è poco incline alle conoscenze occasionali e, da buon orso, è assolutamente refrattario alle chiacchiere fini a se stesse, utilizzate come riempitivo per far trascorrere il tempo. Se non c’è niente di interessante da dire allora che silenzio sia. Il tipo adora il silenzio. Il silenzio è la condizione perfetta per fare le cose che gli piacciono di più e cioè leggere, scrivere e un’altra cosa che, a dire il vero, da un certo punto in poi non dovrebbe svolgersi proprio in assoluto silenzio, sennò vuol dire che non sta venendo tanto bene.
Ma anche questo è un discorso che non c’entra con la storia.
Il tizio tenta di mettere a frutto la classica tecnica utilizzata dall’orso in questi casi (no, non mi riferisco al grattarsi le schiena contro il tronco degli alberi!). Prova cioè a immergersi nella lettura, fingendo di essere così preso da quello che legge da non sentire le conversazioni circostanti, in cui l’esuberante trio cerca di coinvolgere il mondo intero.
Peccato che il lettore sia sprovvisto del baluardo naturale dietro cui trincerarsi e cioè il libro. Il libro ha un effetto respingente sul non lettore. Tipo kriptonite con Superman. Al massimo l’interlocutore accenna un: “Com’è? Bello?” indicando la copertina con un vago movimento del capo; al che il lettore può rispondere laconicamente una cosa tipo: “Abbastanza”, oppure “Sì, non c’è male” e la faccenda, di solito, finisce lì.
Il lettore di ebook, invece, non solo non mette il tizio coi jeans al riparo dall’assalto delle chiacchiere ma, al contrario, le attira.
“Certo che a lei ci piace ciattare!” sorride la balena più anziana alla sua destra.
“Non è un aifòn, cos’è, un galacsi?” si informa subito il genero, seduto di fronte, che impugna, diciamo pure brandisce, l’ultimo modello di telefono melamozzicato e sembra già pronto a una sigolar tenzone sul tema: il mio smartphone è più figo del tuo. Insomma, l’ennesima rielaborazione in chiave tecnologia della più tradizionale delle diatribe tra maschi: io ce l’ho più lungo del tuo!
“Non è un telefono…” prova a ribattere l’orso-lettore.
“E’ un tablet! Ignoranti!” li redarguisce la balena di sinistra, che vuol far vedere di saperla lunga.
“No… non è neanche un tablet…”
Momento di silenzio. Sbandamento. Se non è uno smartphone e non è un tablet… Cos’altro esiste al mondo che si possa tenere tra le mani guardandoci dentro?
“Un videogioco?” chiede speranzoso un ragazzetto che si affaccia dal corridoio.
Ormai siamo al dibattito pubblico. L’orso sospira.
“E’ un lettore di ebook”.
Come se non avesse parlato. Tutti continuano a fissarlo. Per la serie: spiega che non si è capito una cippa.
L’orso continua a ripetere nella mente il suo improvvisato mantra-pop: calma, ci vuole calma e sangue freddo, calma.
“Serve a leggere i libri”.
Delusione palpabile. Perplessità.
“Ahhhh!”
“Ah ecco…”
“… i libri!”
L’orso spera di avere chiuso la partita. Identificato l’oggetto come “libro” ora dovrebbe scattare l’effetto kriptonite. Invece no.
“Cioè lì dentro ci sta tutto un libro?” chiede la balena anziana.
“Veramente ce ne possono stare centinaia, volendo” si lascia scappare l’orso.
“Davvero?”. Incredulità mal dissimulata.
“Ma si possono vedere anche i film?” chiede la balena di sinistra.
“Fa le telefonate?” chiede il marito, che non sembra avere altro dio all’infuori del cellulare.
“Ce l’hai Supermario?” chiede il ragazzino nel corridoio che ormai si sente parte dello scompartimento.
L’orso è chiuso nell'angolo, non ha dove scappare.
“No, questo è un Kindle…”
“Un Kinder?”, chiede un’altra passeggera, che una mezz’ora prima ha scartato e sbocconcellato una merendina, che adesso gli deve essere andata in circolo annebbiandole i neuroni.
“No… Kindle! E’ il nome del lettore di ebook… E’ un modello base, di quelli che servono solo a leggere i libri”.
“Legge solo i libri?” ripete esterrefatto l’uomo aifòn.
“Ma non si stanca gli occhi tutto il tempo sullo schermo del computer? “ si informa mamma balena.
“No signora. Lo schermo è diverso da quello dei computer e non stanca la vista”.
“Come diverso…”
“I computer hanno lo schermo illuminato. Questo invece no”.
“E come fa a vedersi allora?” chiede dubbioso Mr Apple, già pronto a disquisire di schermi Retina.
L’orso non è un esperto di tecnologie innovative. Ha solo una vaga idea di come funzioni l’aggeggio. A lui interessa leggere, non gli frega di questioni tecniche. Messo alle strette è costretto a tentare di spiegare quel poco che ha capito.
“Ha un sistema di inchiostro elettronico, se così vogliamo dire. Quando si preme un pulsante lo schermo viene attraversato da una piccola scarica elettrica che polarizza questo inchiostro e gli fa riprodurre una pagina scritta…”
“Quando si preme un tasto?” si scandalizza il devoto di Cupertino, “Cioè non è tàch?”
“Questo modello no. Preferisco i tasti, così lo schermo si sporca di meno”.
“ E così lei passa il viaggio a leggere!” si stupisce la balena di sinistra, come se il tizio coi jeans passasse il viaggio a coltivare funghi nelle scarpe da ginnastica.
“Vorrei…” mormora questi, triste, guardando fuori da finestrino, “Invece sono arrivato e non ho neanche finito il capitolo…”.
Spegne il Kindle, recupera il suo piccolo trolley, saluta e esce dallo scompartimento.
Il treno entra nella stazione. Si ferma. Il tizio sembra seguire la marea di passeggeri che scendono, ma all’ultimo momento, inaspettatamente, salta la porta di uscita, attraversa le porte che separano i vagoni e prosegue in quello successivo. Che è strapieno, ma il tizio lo dava per scontato.
Adocchiato uno strapuntino in corridoio lo apre, ci si sistema sopra in qualche modo, e tira di nuovo fuori il lettore di ebook. In realtà, infatti, mancano ancora tre ora prima della sua stazione di arrivo.
Scomodo, ma finalmente rilassato, si immerge nella lettura.
Passa un quarto d’ora, ma poi…
“Certo che a lei ci piace ciattare…”
Con uno straniante senso di dejà vu il tizio col Kindle alza la testa. Nello scompartimento di fronte a lui, sul sedile più vicino al corridoio, è seduta una signora non più giovanissima che, però, con ogni evidenza, rifiuta cocciutamente di arrendersi al tempo che passa. Molto trucco, molto colore, un paio di “ritocchini” a zigomi e palpebre, due maestose borse di silicone sopra la cassa toracica.
Il tizio è tentato di rispondere, istintivamente, che non sta chattando. Ma all’ultimo momento si morsica la lingua. Riflette un istante e poi risponde, con la voce più sottile e cinguettante che riesce a produrre:
“Oh sì… non riesco a stare neanche un’ora senza chiacchierare col mio ragazzo!”
La signora perde all’istante ogni interesse e si volta a guardare il paesaggio.
Due uomini di mezza età che vicino a lui, nel corridoio, stavano animatamente discutendo di pallone, si allontanano come per caso di un paio di passi.
L’orso-lettore esulta. Finalmente ce l’ha fatta a creare intorno a sé un po’ di sano spazio vitale.
Soddisfatto sta per reimmergersi nella lettura quando, come dal nulla, compare un ragazzotto coi capelli ossigenati, una pashmina sui toni del viola e gli occhi segnati con l’eyeliner che, sbattendo le ciglia con aria d’intesa, chiede:
“Ma non è un aifòn, cos’è, un galacsi?”


COME NON USARE IL LETTORE DI EBOOK
(dal sito http//:singloids.com)

mercoledì 24 ottobre 2012

SENZA TE

Come farò senza di te amore?
Come farò senza la tua voce armoniosa che mi urla di non poggiare i piedi sul tavolinetto del salotto, di non lasciare le calze in giro, di non aprirmi una birra prima di cena, di cambiarmi la canottiera, di spegnere la sigaretta, di accendere la lavastoviglie, di andare a buttare la spazzatura, di cambiale canale che la partita è una palla e di là c’è il Festivalbar?
Come farò?
Al solo pensiero….
Al solo pensiero mi viene da esultare così forte che ho paura che mi scoppi una vena!




EVVAIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!