Quando gli scrittori parlano
del loro lavoro, raccontano di solito l’entusiasmo che li muove, descrivono la
complessità del processo creativo o, magari, recriminano sulle incongruenze del
sistema editoriale del nostro paese.
Qualche autore arriva a raccontare
il “dramma” del blocco da pagina bianca.
Più raro, invece, trovare
uno scrittore che parli della “fatica” di scrivere e di come a volte non si
riesca a trovare le energie mentali per portare avanti i propri progetti.
Lo so che è difficile per
chi non scrive vedere la scrittura come un’attività faticosa. Non si sollevano
pesi, non si compilano moduli, non c’è un capo rompiballe che ti sta col fiato
sul collo, non ci sono colleghi insopportabili con cui condividere le giornate.
Scrivere appare come un
hobby e quindi, per definizione, qualcosa di rilassante.
“Beato te che scrivi… che
ti rilassi in questo modo… che ti svuoti la testa…”.
Sticazzi! (Traduz: non
funziona così).
Forse scrivere un
raccontino ogni tanto, a tempo perso, può essere uno “svuota testa”, ma portare
avanti seriamente un progetto complesso come un romanzo, un saggio, una
sceneggiatura, richiede, al contrario, la capacità di essere
completamente, con tutta la testa, dentro la storia a cui stai lavorando.
Scrivere a tempo perso significa, con quasi matematica certezza, scrivere porcherie. I
buoni romanzi, le buone storie, vengono da gente che applica le proprie
migliori energie con costanza, per mesi, a volte per anni, al testo che sta scrivendo.
Personalmente, non facendo
lo scrittore come mestiere principale e dovendo ritagliare a fatica il tempo
per la scrittura, il mio più grande cruccio, per tutti i romanzi che ho
pubblicato, è quello di non avere avuto a disposizione il tempo e la
concentrazione che avrei desiderato. Alla fine le cose che ho pubblicato sono il
massimo che sono riuscito a fare col tempo e le forze a disposizione, per cui
convivo ogni volta con la fastidiosa sensazione di non avere espresso fino in fondo il mio potenziale.
In genere il non addetto
ai lavori non ha percezione della quantità di tempo e della costanza dell’impegno che la
scrittura richiede.
Vi confesso che prenderei a schiaffi quegli autori e registi che raccontano al cinema storie di scrittori in crisi che poi ad un tratto, ritrovata “l’ispirazione” (ispirazione? Che cavolo sarebbe l’ispirazione? Da quando in qua uno scrittore serio scrive solo quando ha l’ispirazione, ma scherziamo?), si mettono a digitare all’impazzata sulla tastiera e in un paio di notti di lavoro folle e disperato, tra un whisky e una sigaretta, tirano fuori una fantastica novella o, magari, con qualche settimana di applicazione, un romanzo che vendere milioni di copie e li fa diventare ricchi e famosi.
Vi confesso che prenderei a schiaffi quegli autori e registi che raccontano al cinema storie di scrittori in crisi che poi ad un tratto, ritrovata “l’ispirazione” (ispirazione? Che cavolo sarebbe l’ispirazione? Da quando in qua uno scrittore serio scrive solo quando ha l’ispirazione, ma scherziamo?), si mettono a digitare all’impazzata sulla tastiera e in un paio di notti di lavoro folle e disperato, tra un whisky e una sigaretta, tirano fuori una fantastica novella o, magari, con qualche settimana di applicazione, un romanzo che vendere milioni di copie e li fa diventare ricchi e famosi.
Ma de che? (Come dicono a
Roma).
E così arrivano quei
periodi, a volte brevi, altre volte lunghi e deprimenti, in cui uno scrittore -
magari perché attraversa una fase complicata della sua vita, in cui le
difficoltà del quotidiano esauriscono le energie a disposizione - sente il
“peso” (soprattutto mentale, ovviamente) della scrittura come troppo gravoso.
Non è il desiderio di raccontare storie a essere venuto meno e non è neanche
una questione di blocco da pagina bianca. Al contrario ci sono magari storie
già iniziate, delle quali si è già decisa la trama, che aspettano solo di
essere messe nero su bianco, ma alle quali non si riesce a dedicare tempo e
fatica perché si è "in riserva".
Poi va detto che anche
nella scrittura è importante avere un obiettivo, una prospettiva concreta per
cui lavorare. È vero che più che in altre attività la scrittura trova ragione,
senso e compimento in sé stessa, al punto che moltissimi scrittori scrivono per
anni con passione anche quando non hanno nessuno che pubblica e legge quello
che scrivono, ma mi sembra ovvio che la concreta prospettiva di pubblicare un
romanzo e/o di vendere un soggetto o una sceneggiatura è qualcosa che aiuta in
modo decisivo a trovare forze e motivazioni per rimettersi in moto.
Personalmente ho
sperimentato di recente, in un periodo in cui non riesco a portare avanti
seriamente progetti di scrittura, l’importanza anche soltanto di condividere un
progetto con un altro autore, nel caso di specie la scrittura di una nuova
sceneggiatura con il mio amico/socio Antonio. Fa niente che non sappiamo se
troveremo mai una casa di produzione interessata: il fatto stesso di lavorare
in due, che il mio contributo sia necessario ad arrivare in fondo, mi ha
aiutato a trovare quella concentrazione e quelle energie che mi sembrava di non
avere.
Ma la scrittura, per
fortuna, non è l’infatuazione di un momento. La scrittura è un grande amore che
è lì, c’è, e non si esaurisce, nonostante la fatica. O magari, a voler essere
più cinici, è una malattia cronica, da cui non si guarisce, che prima o poi
ritorna prepotente. Perciò anche nella pesantezza di questi ultimi mesi non mi
dispero del tutto. Confido nel fatto che la fiamma sia, come sempre, accesa.
Torneranno le energie
sufficienti a vincere la pigrizia, a tenere concentrata la mente, a costruire
mattone su mattone, riga su riga, paragrafo su paragrafo, revisione su
revisione, correzione su correzione, ripensamento su ripensamento, riscrittura
su riscrittura, una nuova storia.
Anche senza whisky e senza
sigarette, anche senza inquadrature fichissime con lo skyline della città di
notte sullo sfondo (nella stanzettina in cui scrivo non c’è manco una
finestra…).
Un nuovo romanzo con cui non
vincerò nessun premio e non diventerò milionario.
Sarò solo (parzialmente)
soddisfatto di me.