Il romanzo, come un quadro, è un'opera aperta.
La scrittura è la metà di una mela, la cui metà
mancante è nella mani del lettore.
Anzi, a ben vedere possono esserci una infinità di mele
differenti, a seconda della chiave di lettura (della creatività, appunto) del
lettore, per cui diciamo allora che lo scrittore possiede la metà di un
frutteto e che i lettori detengono ognuno la metà mancante di un singolo frutto
di quel frutteto.
Molti scrittori vivono con sofferenza questa realtà. Si
sforzano disperatamente di chiarire il proprio punto di vista, di esporre nel
modo meno equivoco possibile la loro storia, nel timore che il lettore "non
capisca".
È un atteggiamento molto umano e molto comprensibile ,
ma perdente e sostanzialmente sbagliato.
Perdente perché è impossibile "guidare" la
mente del lettore, sbagliato perché così facendo lo scrittore, senza volerlo,
rischia di castrare la sua opera e privarla delle mille sfaccettature che i
lettori saranno in grado di scoprirvi. Sfaccettature che l'autore, pur avendo
scritto la storia, non è in grado di vedere.
Venendo alla mia esperienza personale, mi è successo
più volte di confrontarmi con lettori che mi hanno dato una chiave di lettura
per me assolutamente imprevista dei miei romanzi. Non ho difficoltà a
confessare che in alcuni casi è scattata istintiva la considerazione silenziosa:
"non ha capito niente…". In altri casi, invece, l'interpretazione della mia storia datami da un lettore
è risultata illuminante,
nel senso che solo in quel momento e solo grazie a quel commento, sono arrivato
a capire, a posteriori, le reali motivazioni che mi hanno mosso a scrivere quella
certa cosa.
L'attività della scrittura, infatti, pur così meditata,
frutto di limature e aggiustamenti, per cui il romanzo che il lettore si trova
tra le mani è il risultato talvolta di infinite modifiche e cambiamenti
rispetto alla stesura originale, conserva comunque una forte componente
inconscia, si sviluppa nella mente a un livello profondo che non sempre
l'autore riesce a indagare fino in fondo.
È la classica, affascinante, esperienza che ogni autore
fa in alcuni momenti di particolare "ispirazione" (ammesso che
l'ispirazione esista) quando la storia fluisce da sola dalle dita e chi scrive
è quasi più simile a un lettore che a uno scrittore, nel senso che resta a
osservare con sorpresa l'idea che la sua mente ha partorito, lo sviluppo
imprevisto della trama, la descrizione inaspettatamente vivida di una scena, la
battuta di dialogo in precedenza mai immaginata che salta fuori, perfetta,
credibile ed efficace non si sa bene da dove.
Perciò, se la scrittura è un processo che si svolge, in
parte, in una regione non del tutto cosciente della nostra mente, può benissimo
essere che un lettore attento e sensibile sappia cogliere persino meglio
dell'autore alcuni nessi, alcune sfumature, alcune motivazioni che fanno da
spina dorsale della storia narrata.
Insomma lo scrittore dovrebbe comportarsi coi propri
romanzi come il genitore ideale, che dovrebbe fare di tutto per dare a un
figlio i migliori strumenti possibili per capire il mondo e se stesso e poi, al
momento giusto, farsi da parte e lasciarlo andare, lasciare che cammini con le
proprie gambe smettendo di cercare di guidarlo o di condizionarlo.
Esattamente quello che i genitori, nella realtà, non
riescono a fare.
Così come gli scrittori.
Ovviamente.
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APRIRE UN ROMANZO E' APRIRE UNA FINESTRA SU UN MONDO |
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