Ne ho sempre avuto paura. Una specie di sacro terrore.
Ognuno di noi ha le sue idiosincrasie. C’è chi ha paura dei ragni, chi dei topi, chi degli spazi aperti, chi degli spazi chiusi, chi delle suore al volante, chi delle nuvole a forma di drago, chi del dentista, chi dell’estratto conto della carta di credito (quest’ultima, in particolare, è una paura molto diffusa…).
Io avevo paura degli editor.
Lo sapete chi sono, no? Sono quelli che lavorano per le case editrici e prendono in consegna il libro di uno scrittore per rivoltarlo come un calzino e trovare tutti i difetti. Sono quelli che decidono cosa funziona e cosa non funziona, quali cambiamenti vanno fatti.
In pratica quelli che danzano allegramente sul cadavere del tuo romanzo sventrato. Così li ho sempre visti io.
Non lo so se alla base di questo terrore ci sia qualche trauma della mia infanzia che ho rimosso dalla memoria; per esempio una vecchia zia che a quattro anni mi minacciava con frasi del tipo: “se non mangi tutto il minestrone viene l’editor nero e ti porta via”! O qualche inenarrabile episodio in cui, alle elementari, un editor perverso è penetrato nella scuola per seviziare un mio tema dall’originalissimo titolo: “Cosa hai fatto durante le vacanze?” (perché generazioni di maestre sono da sempre curiose di sapere che cacchio fanno i bambini durante le vacanze? Cercano consigli? Non hanno fantasia e non sanno dove trascorrere le loro ferie?).
Fatto sta che quando scrivevo solo per me stesso, prima di impazzire e cominciare a cercare un editore, evitavo anche solo di pensare all’eventualità di sottoporre i miei romanzi a un editor. La sola idea mi metteva angoscia. Più o meno come il pensiero di affidare mio figlio piccolo a un baby sitter di nome Hannibal Lecter (“…vada pure al cinema tranquillo… accudirò suo figlio come fosse una prochetta…”).
Pensare alle loro lunghe dita adunche che voltano le pagine del mio manoscritto, alle loro penne rosse (che immaginavo cariche del sangue innocente degli esordienti respinti…) che sottolineano brutalmente ed eliminano interi capitoli, ai loro occhi cisposi e corrucciati che scorrono la trama che tanto lavoro mi è costata, col sarcastico distacco di un vecchio patologo arrivato alla sua millesima autopsia, mi toglieva il sonno.
Così quel famoso pomeriggio in cui arrivò la mail di quel matto del mio editore che diceva che il mio romanzo era buono e che se fossi stato disponibile a lavorarci ancora un po’ poteva essere preso in considerazione, mi sono sentito insieme elettrizzato e terrorizzato.
Una pubblicazione? Una vera? Cioè proprio un libro col mio nome sopra? Cioè proprio che non lo dovevo pagare (profumatamente) io, ma lo stampavano e lo distribuivano loro?
E però… quella frase sibillina e minacciosa…
Cosa intendevano dicendo che avrei dovuto rendermi disponibile ad alcune modifiche?
Lame affilate e uncini acuminati? Pagine sventrate, lasciate agonizzare sul ripiano di sudicie scrivanie? Frasi amputate e aggettivi ferocemente soppressi? Avverbi desaparecidos di cui nessuno avrà mai più notizia? Citazioni sepolte vive? Digressioni seviziate? Nomi dei personaggi geneticamente modificati?
Ero pronto? Davvero ero disposto a chiudere gli occhi davanti a quello scempio pur di fregiarmi dell’aggettivo “scrittore”? Perché gli editori non prospettavano baratti più facili e meno dolorosi, tipo cedergli in comodato una sorella o gambizzare qualche loro debitore?
Ansia e batticuore.
Scrivigli, mi ripetevo. Scrivigli e digli che sei pronto a tutto, che si può sicuramente discutere eventuali modifiche del testo. Tanto: che ci perdi? Bluffa, vai a “vedere” le loro carte e se poi per pubblicarti pretendono di massacrarti il romanzo puoi sempre tirarti indietro. Mica te li stai sposando! Puoi sempre scappare a gambe levate. In fondo è una casa editrice del nord, sono lontani, costa troppo venire fino qui a prenderti a schiaffi per il tempo che gli hai fatto perdere. Sei al sicuro.
Così ho scritto. Ho risposto alla mail, indugiando a lungo col dito sul pulsante del mouse e poi…
Clic! Mail partita.
Ecco fatto. Ecco fatto? Ossignùr cosa ho fatto!!!
Mi sono venduto l’anima alla macchina succhiasangue dell’editoria?
Ed è cominciata l’attesa. La terribile attesa. L’attesa dell’incontro con l’editor mannaro!
Ancora ricordo la prima telefonata…
<Papà c’è uno della ***** che ti cerca…> mi ha annunciato uno dei miei figli, tenendo in mano il cordless, storpiando il nome della casa editrice.
Convinto che si trattasse di telemarketing stavo per rispondergli di dire che non c’ero, che ero emigrato in Groenlandia, ma poi ho avuto un momento di lucidità e ho capito di cosa si trattava.
Sudore gelato lungo la spina dorsale.
<Dammi qua…> ho mormorato prendendo il dannato cordless e portandolo all’orecchio con mano tremante.
<Pronto?...> ho trillato con voce incerta, un paio di ottave sopra il mio tono abituale. Devo essere sembrato una voce bianca in fase di riscaldamento prima di un concerto.
<Buongiorno, sono S. della *******>
Ma come? L’editor mannaro non aveva la voce cavernosa? Non sospirava al telefono come un maniaco? Non si sentiva rumore sinistro di pagine lacerate in sottofondo? La voce sembrava invece quella di uno dei compagni di scuola di mio figlio. Una vocina sorridente (sì, sì, le voci possono essere sorridenti, avete notato? Se dall’altra parte della linea telefonica l’altra persona sorride si “sente”, si percepisce. Questa cosa la insegnano nei corsi di vendita telefonica. Solo che poi, a furia di farsi sbattere il telefono in faccia per poche centinaia di euro al mese, gli addetti ai call center se lo dimenticano in fretta questo suggerimento…), una voce da ragazzino.
Dov’era il trucco? Avevano una macchina che altera la voce? Uno strumento per ipnotizzare a distanza? Ero già in loro potere e neppure me ne rendevo conto? Era l’invasione degli ultracorpi? La notte mi sarei ritrovato chiuso in un baccello e la mattina dopo ne sarei uscito coperto di bava verde, trasformato in uno scrittore-pollo-da-batteria pronto a dire e firmare tutto quello che volevano? Sarei stato persino disposto a comprarmi (orrore!) una giacca di velluto con le toppe di camoscio ai gomiti e un cappello?
< Ha qualche minuto? Le volevo parlare del romanzo!>
<Ehm… sì… beh sì… certo…>
Inutile rimandare, prima o poi bisognava pure affrontarlo. Oppure scappare davvero in Groenlandia. Che poi… si vivrà così male in Groenlandia? Cioè non è che sia molto popolata, ma qualcuno ci vive, no? Però magari ci vive perché non può venire via e, se potesse, col cavolo che vivrebbe in Groenlandia!
Basta! Come mio solito stavo divagando: in questi casi la mia mente gira per i fatti suoi e io perdo lo scorrere della realtà intorno a me.
Mi sono imposto di concentrami.
Ho ascoltato e, senza rendermene conto, come una confezione di surgelati tirata fuori dal freezer, lentamente ho cominciato a sciogliermi, mi sono rilassato, mi sono messo persino a sedere (all’inizio ero rimasto in piedi, rigido, soldatino sull’attenti al centro della stanza).
Niente uncini, niente forbici, niente ordini abbaiati con tono duro, magari in tedesco, come nei film sui campi di concentramento, niente “devi”, niente “tagliamo”, niente “eliminiamo”, niente “lasci fare a noi” seguito da minacciose risatine di sottofondo.
S*** con la sua voce da ragazzino ha cominciato a parlarmi di trama, di sviluppi della storia, di coerenza, di possibili miglioramenti da apportare. E le cose di cui mi parlava avevano un senso, suonavano bene.
Sì, effettivamente anch’io avevo delle perplessità su quel passaggio, non mi convinceva fino in fondo. Sì, anch’io mi chiedevo se quel personaggio non fosse un po’ troppo debole. No, non avevo pensato che forse questo retroscena andava spiegato meglio ma, adesso che me lo faceva notare…
Soprattutto mi sono reso conto che il lavoro di riscrittura sarebbe rimasto tutto e solo mio. Che avrei conservato il controllo del testo. Questa (faticosa) consapevolezza mi ha definitivamente tranquillizzato. Insomma: avremmo discusso insieme e poi io mi sarei messo al lavoro.
<Va bene, mi fa piacere avere avuto questa prima chiacchierata. La richiamerò a breve e vediamo di cominciare a lavorare il prima possibile>
<D’accordo. Aspetto la sua telefonata!>
Sono rimasto lì col cordless in mano per un paio di minuti, a riflettere sulle cose che mi aveva detto. Effettivamente aveva beccato un paio di punti deboli del romanzo. Del resto sapevo che c’erano (ci sono sempre). Ricordo che avrei voluto precipitarmi al PC e cominciare immediatamente a riscrivere. Che avrei voluto che avessimo già deciso una serie di cose. Che avrei voluto…
Improvvisamente realizzai che era passata. Era scomparsa. Non c’era più.
Ero guarito!
Era bastata una telefonata.
E io non avevo più paura dell’editor mannaro...
P. S.
Al di là del racconto, chiaramente “romanzato”, nella realtà ho avuto occasione di collaborare con tre diversi editor ai tre romanzi che fino a ora ho pubblicato.
Sono state esperienze differenti, che hanno comportato una mole di lavoro diversa; in un caso abbiamo deciso delle modifiche alla trama, con l’aggiunta di due nuovi capitoli, che ho scritto per l’occasione; negli altri due casi gli interventi sono stati più contenuti e limitati a delle migliorie al testo.
Posso dire che si è trattato, comunque, sempre di esperienze sostanzialmente positive.
Il confronto con un professionista portatore di un punto di vista “terzo” rispetto al testo è stato fruttuoso e ha consentito al romanzo di guadagnare qualcosa. Uno dei punti di debolezza delle auto-pubblicazioni, o della pubblicazione con case editrici poco serie, infatti, resta questo: la mancanza del confronto con un bravo editor che consente allo scrittore di recuperare quello sguardo esterno, da “lettore” che è fondamentale per individuare alcuni difetti (talvolta minimi, talvolta invece eclatanti), che l’autore, troppo immerso nella sua opera, non riesce più a vedere.
PALLOTTOLE D'ARGENTO DA USARE CONTRO GLI "EDITOR MANNARI" |