venerdì 27 luglio 2012

La lettera delle royalties

L’ha tenuta sul comodino tutto il giorno.
L’ha presa in mano un paio di volte, poi l’ha rimessa giù. Senza aprirla.
E’ solo una lettera. Secondo le leggi della fisica è leggera. Secondo altre leggi, non scritte, è maledettamente pesante. Sa di cosa si tratta, la stava aspettando: è la lettera con cui la casa editrice gli comunica ufficialmente quante copie ha venduto l’anno precedente del romanzo che ha pubblicato e, di conseguenza, quanto gli spetta di royalties.
In pratica è la sua pagella. Quella che dirà, brutalmente, com’è andata la sua prima avventura editoriale al di là delle pacche sulle spalle degli amici e delle lodi preconfezionate dell’editore; al di là delle due o tre recensioni non malvagie collezionate su internet e della manciata di lettori che hanno aggiunto il suo libro sui siti per appassionati di lettura.
Lo sa benissimo, lo ha capito che il suo piccolo romanzo d’esordio, che gli è costato ansia e fatica, non ha certo fatto il “botto”. Come ampiamente prevedibile è stato solo uno dei tanti romanzi sfornati e triturati dalla bulimica macchina editoriale nazionale che, nonostante pianga perenne miseria, riversa ogni anno sul mercato migliaia di titoli che, bene che vada, restano nelle librerie per lo spazio del ritorno delle mestruazioni di sua moglie e vendono, il più delle volte, un numero di copie persino inferiore al numero degli amici e dei parenti più prossimi dello scrittore.
In pratica qualche cugino, bastardo, il libro fa solo finta di leggerlo.
Del resto è consapevole che il “genere” del suo romanzo non è di quelli che fanno sfracelli in termini di vendite. Non si tratta, infatti, né di un trillerone in salsa di serial killer né di una storiacchiona infarcita di misteri e di Templari. Più banalmente è l’ennesimo romanzo di formazione che parla dell’infanzia sfigata di un ragazzino timido, figlio della piccola borghesia, in una città di provincia.
Preso atto e accettato che di “piccolo cabotaggio” si tratta, non gli resta che sperare si tratti di un piccolo cabotaggio dignitoso. L’editore (uno - incredibile ma vero - che non gli ha chiesto soldi sottobanco) gli ha fatto capire che riterrebbe un successo esaurire la prima tiratura di mille copie, ma che per rientrare dalle spese basterebbe venderne 300, meglio magari 350.
Fino a ieri diceva a se stesso che si sarebbe ritenuto soddisfatto di raggiungere quota 500. Gli sembrava un bel risultato, paragonato alle vendite medie degli autori che pubblicano con un piccolo editore. Oggi, con la busta che lo aspetta pazientemente sopra il comodino, silenziosa e infida, gli pare che anche 300 copie andrebbero bene. Magari anche 250. Magari pure 200, che poi nel corso del prossimo anno se ne potrebbero vendere delle altre e…
L’orologio segna le 22,00. Si mette il pigiama, va in bagno, si lava i denti.
Infine eccolo lì. Seduto sul bordo del letto. Non si può più aspettare.
Una volta deciso, prende la lettera con improvvisa frenesia. La straccia con mani non molto ferme e tira fuori l’unico foglietto che contiene. E’ ripiegato in tre. Lo apre piano, si può dire che lo “spizza” come il giocatore di poker che scopre poco per volta le carte che ha ricevuto in sorte.
Legge il numero. Gli cadono le braccia. Lo rilegge di nuovo. Forse non è quello giusto… Forse…
No. E’ proprio il numero giusto. C’è scritto 98.
Nel corso del primo anno di pubblicazione ha venduto 98 copie del suo romanzo. Neanche 100. Non è neanche arrivato a fare “conto tondo”. Porca miseria! A saperlo se le sarebbe comprate lui, di tasca sua quelle 2 maledette copie mancanti.
Quanto sono gli amici e i parenti? Non ha una famiglia molto numerosa. Non ha un gran giro di amici (mai come in questo momento vorrebbe essere uno di quei tipi estroversi che conoscono mezzo mondo, invece che il classico timido che frequenta la stessa cerchia di persone da una vita). Un paio di volte si è messo a fare il conto. Diciamo che amici e parenti avranno comprato un’ottantina di volumi?
Insomma. Il suo libro, in libreria, ha venduto sì e no quindici copie.
Eccolo qua, nero su bianco. L’ennesimo esordiente senza fortuna. Uno dei tanti. Né meglio né peggio della maggior parte degli altri. Se si trattasse di una pagella scolastica sua mamma lo prenderebbe per le orecchie e gli direbbe che se lo può scordare il motorino.
Continua a scorrere il foglio. A questo punto il bicchiere bisogna berlo fino in fondo. Legge così anche l’ammontare delle “famose” royalties. Gli viene fuori una risatina involontaria, una specie di pernacchia tra le labbra. Con quella cifra farà fatica a portare sua moglie a fare una pizza.
In quel mentre lei entra nella stanza. Anche lei in pigiama, struccata, pronta per andare a dormire.
Le basta uno sguardo.
Non dice niente. Si infila nel letto. Lui poggia la lettera; a sua volta si mette giù. Spegne la luce sul comodino. La stanza casca nel buio.
<Vieni qua…> mormora lei.
Lui ci va. Lei lo abbraccia e lo tiene stretto.
<Non mollare. Vedrai che il prossimo andrà meglio, sono sicura!>
Lui non è altrettanto sicuro. Nonostante ciò lo sa che non mollerà. Non ha dubbi su questo. Non mollerà perché scrivere gli piace, perché scrivere è importante, perché lo ha fatto per anni anche solo per se stesso, anche quando un editore non ce l’aveva. Non mollerà perché le storie da raccontare non gli mancano e le parole neppure, perché è sempre piena di parole quella sua testa un po’ spelacchiata che ora sua moglie accarezza con dita leggere. Scriverà perché il mondo così com’è non gli basta e non gli basterà mai e ha bisogno di masticarlo, digerirlo e risputarlo nel modo in cui sanno fare (bene, male, abbastanza bene) le sue dita sui tasti di una tastiera.
Sì. Il prossimo andrà meglio. Ha già una bellissima trama in testa.
Sua moglie lo bacia. Ha le labbra calde. Le mani si muovono a memoria. I corpi conoscono le regole.
Grazie amore mio per questo amore fatto con amore.
Sì…
Fanculo al mondo!
Il prossimo romanzo sarà bellissimo!


P. S.

questo pezzo non è strettamente autobiografico (per fortuna il mio primo romanzo il primo anno ha venduto un po' più di 98 copie) ma lo stesso, in qualche misura, parla anche di me; diciamo che ogni scrittore non famoso ci si può riconoscere :-)


"QUANTO GLI DIAMO A 'STO FREGNONE DI SCRITTORE? UN FIORINO?"

venerdì 6 luglio 2012

Romanzi & coliche.

Ho in testa una bellissima storia.
E’ lì da quasi un anno, nel corso del quale è cresciuta, poco per volta, come una piantina, come un cucciolo, come gli interessi del mutuo, e ora sta seduta in un angolo e spesso neanche mi accorgo che c’è; poi all’improvviso, nel bel mezzo di un altro pensiero, mi torna in mente e allora la riguardo con affetto e mi sento insieme bene e male. Bene perché è come avere un piccolo tesoro in banca a cui sai che potrai attingere; male perché la storia ormai è abbastanza cresciuta e sarebbe arrivato il momento di metterla nero su bianco, di darle una forma, e invece non trovo il tempo, perché il poco che riesco a dedicare alla scrittura è sempre riservato a altro: ci sono le bozze di un precedente lavoro da rivedere, c’è un racconto da scrivere per un concorso, c’è il blog da aggiornare, c’è una recensione da abbozzare.
Una storia come quella che ho in testa non si può scrivere nei ritagli di tempo, richiede un periodo tutto per sé, bisogna dedicarle la giusta attenzione, immergersi nella trama, seguirla, svilupparla con la necessaria regolarità.
Cerco di tranquillizzarmi ripetendomi che non devo avere fretta, che prima o poi troverò il modo di scriverla, ma intanto mi vengono pensieri assurdi, demenziali, del tipo: e se morissi stanotte nel sonno? E se prendessi un colpo in testa e mi svegliassi con la memoria azzerata? E se l’Italia finisse sotto una dittatura che vieta la pubblicazione di qualsiasi libro tranne quelli con cui Bruno Vespa tesse le lodi del Grande Dittatore?
Scrivere è così: una mediazione dolorosa tra l’effervescenza della mente che immagina a profusione e la stitichezza della mano che traduce faticosamente l’idea in fogli scritti. E la stitichezza e tanto più ostinata quanto più la vita dello scrittore è occupata da mille altri impegni, primo fra tutti quello di procurarsi da vivere, visto che di scrittura non campa quasi nessuno.
Certe volte mi prende l’angoscia e mi convinco che non riuscirò più a scrivere un romanzo, che sarò destinato in futuro a “espellere” al massimo qualche racconto e qualche frettoloso post su internet. Invece poi succede di nuovo; in qualche modo miracoloso la storia si alza dall’angolo della mente in cui è stata seduta per tanto tempo e comincia a venire fuori dalle dita. Per vie misteriose trovo le ore in cui portare avanti il lento lavoro del romanzo, spesso rubandole a altro, perché non ci sono alternative: il giorno non si può dilatare come un palloncino che gonfi d’aria.
Da un lato i sensi di colpa, dall’altro l’urgenza di "evacuare" finalmente la storia.
Sì lo so che non è elegante la metafora del romanzo/colica e che sarebbe stato più poetico usare l’abusata metafora del romanzo/parto, ma rende bene l’idea: con la stessa urgenza con cui la colica deve “sfogare” anche il romanzo deve per forza venire alla luce. Sennò la bella storia diventa una dolorosa fissazione, il piccolo tesoro tenuto da parte diventa un pesante debito da pagare.
Decisamente è arrivato il momento. Dovrò assolutamente trovare il modo di liberarmi di questa storia. E sapete perché?
Perché nel frattempo me ne sta già venendo in mente un’altra bellissima!



Giovane scrittore intento a "liberarsi" dalle sue storie.